Cannabis e danni alla salute

In collaborazione con
Laboratorio Tossicologia Forense Xenobiocinetica Clinica
Progetto NPS 2018 - Multicentrica di Ricerca
DPA - Presidenza del Consiglio dei Ministri

Uso medico dei cannabinoidi esogeni

Azione anti-nausea e vomito

Sulla base di esperienze aneddotiche di pazienti che riferivano che l’inala­zione di derivati della cannabis li aiutava a controllare la nausea e il vomito causati dalla chemioterapia, sono stati in seguito programmati studi clinici controllati, nei quali l’efficacia antiemetica dei cannabinoidi veniva messa a confronto con quella dei farmaci convenzionali o di un placebo. Una revi­sione sistematica della letteratura scientifica (Tramèr et al., 2001) ha evidenziato che l’efficacia antiemetica di cannabinoidi quali il delta-9-tetraidrocanna­binolo (THC), il nabilone o il levonantradol, è risultata leggermente supe­riore a quella dei farmaci convenzionali (proclorperazina, metoclopramide, clorpromazina, tietilperazina, aloperidolo, domperidone e alizapride). Negli studi cross-over, inoltre, i cannabinoidi erano preferiti agli altri farmaci. Per contro, numerosi pazienti che ricevevano cannabinoidi dovevano interrom­pere il trattamento per via del manifestarsi di effetti collaterali. Nel 1985, la Food and Drug Administration (FDA) ha autorizzato l’immissione in commercio del dronabinol (THC sintetico), seguito dal nabilone, un altro cannabinoide sintetico, messo in commercio in Gran Bretagna. Attualmente tali farmaci sono comunemente reperibili in vari Paesi tra cui Canada, Stati Uniti, Belgio, Germania, Olanda, Svizzera, Israele, Irlanda, Messico, Sud Africa.

Stimolazione dell’appetito

La stimolazione dell’appetito è una delle esperienze più comuni sperimentate dagli utilizzatori di cannabis e diversi studi clinici controllati condotti negli anni ‘90 hanno testato, in pazienti HIV positivi, l’efficacia del dronabinol nella stimolazione dell’appetito (Gorteret al., 1992). La FDA ne ha autoriz­zato l’uso quale “stimolante per l’appetito nei pazienti con perdita di peso AIDS-correlata” a partire dal 1992; il farmaco è stato successivamente regi­strato, con questa specifica indicazione, anche in alcuni Paesi europei. Tale indicazione ha perso attualmente parte della sua importanza, almeno nei Paesi industrializzati, vista la diminuzione dei casi di AIDS e della cachessia correlata, a seguito della disponibilità di terapie antiretrovirali efficaci.

Azione analgesica

Le proprietà antidolorifiche dei cannabinoidi sono state di­mostrate in vari modelli animali ed in studi clinici (Clappert et al., 2010). Una rassegna della letteratura riguardante gli effetti analgesici dei cannabinoidi (Campbell et al., 2001) ha analizzato studi clinici randomizzati controllati con pazienti affetti da dolore acuto, cro­nico o correlato alla presenza di tumori. Dai risultati è emerso che i cannabi­noidi non mostravano una efficacia superiore alla codeina nel controllo del dolore e che l’utilizzo era ulteriormente limitato da effetti depressivi che si manifestavano sul Sistema Nervoso Centrale.
Nonostante l’analgesia indotta dai cannabinoidi sia riconosciuta efficace su modelli animali, le evidenze di efficacia sull’uomo sono ancora piuttosto contrastanti. Alcuni studi clinici che coinvolgono pazienti con dolori di tipo neuropatico (come ad esempio sclerosi multipla, neuropatie, fibromialgia) hanno prodotto risultati positivi. Tuttavia, studi che misuravano l’efficacia dei cannabinoidi per il trattamento del dolore acuto (come ad esempio il dolore post operatorio), hanno generato prevalentemente risultati negativi (Haze­kamp and Grotenhermen, 2010).
Altre potenziali indicazioni possono essere la terapia del dolore tumorale (Guzman, 2003), dove oltre all’effetto antalgi­co vi può essere un effetto positivo sull’appetito, con riduzione della nausea da chemioterapia e il trattamento del dolore muscolo-scheletrico. Anche il trattamento dell’emicrania può essere un’indicazione della cannabis terapeu­tica (Russo, 1998), ma sono necessari studi clinici controllati per valutarne l’effettiva efficacia.

Spasticità e sclerosi multipla

Alcuni studi hanno evidenziato un possibile ruolo del THC in pazienti con spasticità legata a sclerosi multipla. Una recente revisione della letteratura pubblicata sulla rivista BMC Neurology (Lakhan et.al, 2009) ha analizzato i dati delle pubblicazioni relative a studi clinici randomizzati sull’uso di pre­parazioni contenenti THC e CBD per il trattamento della spasticità in pazienti affetti da sclerosi multipla. I risultati evidenziavano un beneficio terapeutico nell’alleviare i sintomi di spasticità, che tuttavia poteva essere accompagnato da effetti collaterali più o meno marcati, anche in funzione della dose di trattamento somministrata. Altre sperimentazioni cliniche randomizzate-controllate non sono state in grado di dimostrare una evidenza oggettiva misurata secondo metodologie standard, né degli effettivi benefici dei cannabinoidi della Cannabis sativa sulla spasticità nei pazienti affetti da sclerosi multipla. Tutta­via, la valutazione soggettiva dei pazienti evidenziava un miglioramento della spasticità, della qualità del sonno e del dolore (Thaera GM et al., 2009).
Alcune evidenze, inoltre, indicano che i cannabinoidi sarebbero in grado di produrre degli effetti neuroprotettivi e antiinfiammatori, rallentando i processi degenerativi della sclerosi e di altre malattie degenerative (Pryce et al., 2003). La ricerca di Smith PF (2010) evidenzia che gli studi clinici disponibili, nonostante evidenzino effetti collaterali lievi associati all’uso di prepa­rati cannabinoidi, sono generalmente di durata breve (pochi mesi) ed è possibile che un uso a lungo termine di queste sostanze possa determinare la comparsa di altri effetti collaterali. Motivi che possono essere di preoc­cupazione soprattutto per l’uso dei cannabinoidi terapeutici negli adolescen­ti, nei soggetti predisposti a psicosi e nelle donne in gravidanza.
E’ notizia recente quella dell’approvazione, nel Regno Unito, del Sativex®, preparazione farmaceutica ottenuta da un estratto di cannabis, contenente THC e cannabidiolo (CBD) in rapporto 1:1, per il trattamento della spasticità in pazienti affetti da sclerosi multipla. Ulteriori studi sono in corso in diversi altri Paesi per la valutazione di questo farmaco. Negli Stati Uniti, l’FDA non ha approvato il Sativex®, ma solo il suo uso in alcuni studi clinici.

Neuroprotezione

Evidenze scientifiche indicano che i cannabinoidi potrebbero essere utili nel trattamento del morbo di Parkinson, attraverso l’inibizione nell’azione eccita­toria del neurotrasmettitore glutammato, contrastando i danni ossidativi che si manifestano a livello dei neuroni. L’effetto inibitorio dei cannabinoidi su spe­cie reattive dell’ossigeno (azione antiossidante), sulla tossicità del glutammato e su fattori di necrosi tumorale, così come l’attività antiinfiammatoria, suggeriscono una loro potenziale azione neuroprotettiva (Croxford JL, 2003; Price DA et al., 2009) e un potenziale nel trattamento di rilevanti patologie neurodegenerative quali il morbo di Alzheimer, la sclerosi multipla, il morbo di Huntington e la sclerosi laterale amiotrofica (Romero J et al., 2009).
Uno studio pilota randomizzato, su 44 pazienti affetti da morbo di Huntington, ha evidenziato che il trattamento con nabilone era sicuro e ben tollerato, senza la manife­stazione di episodi psicotici, suggerendo la possibilità di svolgere studi con il nabilone più ampi e lunghi per questa malattia (Curtis et al., 2009).
Tra i cannabinoidi, studi recenti riportano l’esplorazione delle potenzialità terapeuti­che del cannabidiolo (CBD) nella prevenzione e trattamento delle principali patologie neurodegenerative. Sembra infatti che il CBD sia in grado di proteg­gere le cellule neuronali e non neuronali da una serie di agenti che inducono tossicità, come i β-amilodi, la 6-idrossidopamina o il glutammato e che sono considerati essere alla base di malattie come il Parkinson e l’Alzheimer (Iuvone T et al., 2009).

Glaucoma

Il glaucoma è una patologia che dipende dalla pressione intraoculare per la quale non esistono cure farmacologiche efficaci, e che porta alla cecità. A partire dagli anni ‘70, è stata riportata la capacità del THC di diminuire la pressione intraoculare, rappresentando un potenziale terapeutico per il trattamento del glaucoma. Da queste prime osservazioni sono stati condotti numerosi studi per confermare l’efficacia di cannabinoidi quali THC, CBD, cannabigerolo e cannabinoidi sintetici nel ridurre la pressione intra­oculare quando somministrati per via sistemica o topica. Il THC potrebbe inoltre aumentare la circolazione sanguigna nella retina come dimostrato in uno studio aperto (Plange et al., 2007). Negli ultimi anni, nonostante un ini­ziale interesse sull’argomento, è stato pubblicato solamente un nuovo studio clinico (Tomida et al., 2006) il quale evidenzia una modesta riduzione della pressione intraoculare dopo somministrazione di THC sublinguale. Tuttavia, l’effetto è sintomatico e di breve durata, come riportato anche in altri studi. Esiste inoltre l’esigenza di verificare l’entità del rischio dei cannabinoidi di produrre dipendenza quando usati per il trattamento del glaucoma.

Malattie psichiatriche

Dati recenti ipotizzano che molecole in grado di stimolare il sistema endocan­nabinoide potrebbero avere un potenziale interesse nel trattamento di distur­bi psichiatrici come l’ansia, la depressione e le dipendenze. Alcune molecole di sintesi in grado di interferire con i livelli degli endocannabinoidi possono avere un potenziale per il trattamento della dipendenza dalla cannabis stessa (Clapper et al., 2009) o nel trattamento di ansia e depressione (Piomelli et al. 2006) ma ad oggi sono disponibili solo pochi studi in merito.
Uno studio clinico attualmente in corso (ClinicalTrials.gov 2010) sta valutando se una combinazione standardizzata di estratti della pianta di cannabis contenenti un rapporto di THC:CBD 1:1 sia in gra­do di alleviare alcuni dei sintomi del disturbo bipolare in pazienti che non rispondono ai trattamenti convenzionali. Altri studi stanno valutando il potenziale terapeuti­co della cannabis per verificare l’azione antipsicotica nel trattamento di pazienti affetti da schizofrenia (Leweke et al., 2007).

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